Introduzione
Secondo statistiche ormai consolidate, il tromboembolismo venoso (TVS) [termine che comprende la trombosi venosa profonda (TVP) e l’embolia polmonare (EP)] rappresenta per prevalenza la terza sindrome “cardiovascolare” acuta, dopo l’infarto del miocardio e l’ictus ischemico (1). Benché l’incidenza di TVP ecceda significativamente quella di EP, quest’ultima rappresenta la fattispecie a più significativo impatto clinico sia per quanto riguardi la mortalità complessiva (circa 300k morti annui negli USA, 1/3 dei quali improvvisamente) sia per i costi sociali (1). Se la diagnosi ed il trattamento di fase acuta e sub-acuta dei pazienti con EP e/o TVP è ampiamente codificato, il management a lungo termine dei pazienti reduci da un TVS è tuttora oggetto di dibattito, con multiple combinazioni terapeutiche teoricamente prescrivibili. In linea generale, eccettuati i pazienti con EP ad alto rischio e quindi candidati a terapia riperfusiva polmonare (farmacologica o interventistica), le fondamenta del trattamento dei pazienti con TVS si basano sulla somministrazione precoce della terapia anticoagulante. La terapia anticoagulante dei pazienti con EP si fonda, grossolanamente, su 3 fasi consecutive: l’approccio iniziale (primi 5-10 giorni di terapia), la terapia a lungo termine (primi 3-6 mesi dopo l’evento acuto) e la terapia prolungata (a tempo indefinito) (2). Ognuna di queste 3 fasi ha degli obiettivi distinti. Secondo dati ormai storici – ottenuti in un tempo in cui si potevano condurre studi di raffronto contro placebo della terapia anticoagulante – il trattamento di fase acuta dell’EP consente una riduzione della mortalità dell’ordine del 70% (3). La terapia a lungo termine, invece, mira a ridurre il tasso di recidive del TVS (1), eventualità che può coinvolgere una fetta di pazienti variabile dal <3% annuo (dopo un primo episodio dovuto ad un evento maggiore transitorio reversibile: chirurgia maggiore, trauma con fratture o allettamento prolungato) al >8% annuo (pazienti con cancro attivo, sindrome da anticorpi antifosfolipidi o EP recidiva in assenza di un fattore predisponente maggiore). Esiste poi un’ampia fetta di pazienti a rischio intermedio di recidiva (stimabile tra 3-8% annuo) per via della presenza di un fattore di rischio minore sebbene reversibile (ad es. chirurgia minore, gravidanza, volo aereo prolungato), di un fattore persistente non neoplastico (malattia infiammatoria cronica intestinale o autoimmune) e dopo un TVS idiopatico.
Cenni di terapia del TVS
Quanto alla terapia di fase acuta e sub-acuta (orientativamente fino a 3 mesi dal’evento, estendibili eventualmente sino a 6 mesi), la farmacopea a disposizione del clinico si è significativamente ampliata dal 2009, quando il primo DOAC (Dabigatran nello studio “RE-COVER”) si dimostrò essere equivalente in termini di efficacia (recidiva di PE 2.4 vs 2.1%) e tendenzialmente più sicuro (sanguinamenti nel 16.1% vs 21.9%) dello standard-of-care rappresentato da “eparina a basso peso molecolare” (EBPM) + Warfarin (4). Da allora, tutti gli altri DOAC attualmente in commercio – Rivaroxaban (studi EINSTEIN) (5, 6), Apixaban (studio Amplify) (7) ed Edoxaban (Studio Hokusai) (8) – hanno raggiunto risultati similari, ponendo le basi per il loro utilizzo ormai massiccio nei pazienti con TVS. Come noto, il Rivaroxaban e l’Apixaban possono essere somministrati fin dalla diagnosi del TVS (1), evitando gli iniziali giorni di terapia parenterale con EBPM e consentendo potenzialmente una maggiore maneggevolezza.
Secondo le attuali linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC), dopo orientativamente 3 mesi di terapia, nei pazienti a basso rischio di recidiva di TVS è indicata la sospensione dell’anticoagulante con successivo follow-up clinico (1). Questa impostazione generale può essere convenientemente adiuvata dalla predisposizione di un controllo programmato strumentale (ecocolorDoppler venoso in caso di TVP) e/o laboratoristico (monitoraggio cadenzato del D-dimero a 1-3 mesi dopo la sospensione dell’anticoagulante) – quest’ultima pratica sostenuta chiaramente dai risultati favorevoli degli studi PROLONG (9, 10) – allo scopo di individuare precocemente i pazienti a maggiore rischio di recidiva da indirizzare eventualmente a profilassi/trattamento a lungo termine.
Per converso, esiste un’indicazione cogente (classe di evidenza I con livello di evidenza B) alla prosecuzione a lungo termine della terapia anticoagulante dopo il primo episodio di TVS nei pazienti affetti da sindrome da anticorpi antifosfolipidi (in questo caso con Warfarin) e nei casi di TVS recidiva in assenza di un fattore predisponente maggiore. In aggiunta, anche in tutte le altre categorie di pazienti a rischio “non basso” vi è un suggerimento alla terapia anticoagulante/(antitrombotica) a lungo termine (classe di evidenza IIa). (1)
Trattamento a lungo termine nei pazienti con TVS
Storicamente il trattamento a lungo termine nei pazienti a rischio più elevato di recidiva di TVS ha previsto la prosecuzione indefinita dell’anticoagulazione orale con Warfarin ed assai meno frequentemente con approcci antitrombotici alternativi [come l’aspirina a bassa dose (11) o la sulodexide (12) in casi selezionati] (1). Eppure, più recentemente l’uso dei DOAC è diventato preminente anche in questa categoria di pazienti in cui il bilancio tra tasso di recidiva di TVS (ridotto fino al 90% in caso di anticoagulazione a lungo termine) e rischio di sanguinamento dovuto alla prosecuzione della terapia anticoagulante può essere a volte flebile. Benché tutti i maggiori DOAC siano attualmente autorizzati per la terapia a lungo termine del paziente con pregressa TVS ed a rischio intermedio-alto di recidiva, il Rivaroxaban e l’Apixaban possono prevedere l’impiego di una posologia “profilattica” per tale scopo (1).
Nello specifico, i risultati favorevoli dello studio “EINSTEIN CHOICE” hanno sostenuto l’utilizzo di un dosaggio “profilattico” di Rivaroxaban (10 mg) per la terapia a lungo termine dei pazienti con pregressa TVS, dimostrando un’efficacia simile rispetto al dosaggio “terapeutico” del medesimo farmaco (20 mg; recidive del 1.5 vs 1.2%) e comunque significativamente superiore rispetto alla sola aspirina (4.4%), senza segnali rilevanti di maggiore rischio in termini di sanguinamento (13).
Risultati simili sono stati ottenuti nel contesto dello studio “AMPLIFY-EXT” che ha dimostrato come un dosaggio “profilattico” si Apixaban (2.5 mg x 2) fosse equivalente al dosaggio “terapeutico” del farmaco (5 mg x 2) nella prevenzione a lungo termine del TVS recidivo (1.7% vs 1.7% a 12 mesi contro 8.8% con placebo), riportando al contempo un profilo di sicurezza tendenzialmente più favorevole (tasso di sanguinamenti non maggiori ma clinicamente rilevanti del 3% con dosaggio “profilattico” vs 4.2% con dosaggio “terapeutico”) (14).
Ciononostante, considerato come né lo studio “EINSTEIN CHOICE” né lo “AMPLIFY EXT” prevedeva l’arruolamento di pazienti a più alto rischio di recidiva di TVS e come nessuno dei due studi avesse una potenza statistica sufficiente per confrontare tra loro i due regimi posologici dei DOAC (“profilattico” vs “terapeutico”), la scelta di proseguire a lungo termine con il DOAC a dosaggio “anticoagulante” rimane possibile, dopo valutazione clinica integrata del bilancio rischio/benefici. Tale approccio è peraltro consentito anche dalle ultime linee guida della Società Americana di Ematologia (ASH) (15), a cui si rimanda per una disamina più granulare di tale aspetto, peraltro potenzialmente chiave.
Conclusioni
L’introduzione dei DOAC ha permesso un’evoluzione dei protocolli di trattamento dei pazienti con TVS, con il radicale cambiamento sia del trattamento di fase acuta (consentendo in alcuni casi un “single-drug approach”) sia per la terapia a lungo termine per i pazienti a più elevato rischio di recidive. In questo ultimo sottogruppo di soggetti, l’uso di DOAC a dosaggio “profilattico” per la terapia a lungo termine dei pazienti a rischio relativamente elevato di recidiva di TVS – come possibile nel caso del Rivaroxaban e dell’Apixaban – è peraltro favorito dalle attuali linee guida ESC (classe di raccomandazione IIa). L’impiego dei DOAC come standard-of-care nella maggior parte dei pazienti con indicazioni all’anticoagulazione orale è, poi, sostenuto dalle recenti evidenze di “vita reale” nostrane (vedi ultimo report dell’Italian National Pharmacovigilance Network con i dati del quinquennio 2017-2021 provenienti dal registro di sorveglianza post-marketing dell’AIFA) (15) che, seppur mostrando un tasso di segnalazioni avverse differenziale per le 4 molecole attualmente a disposizione, ne conferma la generale sicurezza.
A cura del:
Dott. Riccardo Liga
MD, PhD, FESC1,2
1 Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Università di Pisa
2 Dipartimento Cardio-Toracico e Vascolare, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana
BIBLIOGRAFIA
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